per gentile concessione dell'Autore, Federico Faraone.

 

CERTI NOSTRI MODI DI DIRE…

                                               (piccola rubrica dialettale)

 

     Nella nostra forma dialettale ci sono tante curiose espressioni che tutti noi conosciamo benissimo e che spesso amiamo anche menzionare nei nostri discorsi, mettendole anche in particolare risalto per la loro singolarità. Talvolta anzi ne facciamo uso ad arte, col preciso intento di rendere più simpatica la nostra frase o per far sentire nelle nostre parole il peso che la saggezza antica riesce ancora a dare…

     Il più delle volte si tratta di massime o modi di dire composti da parole chiare, di cui conosciamo bene il significato. Di altre frasi, invece, ci risulta chiaro solo il messaggio finale, ma obiettivamente non riusciremmo a spiegarci il significato di certe parole che le compongono.

Per meglio comprenderci, distingueremo una locuzione come “Unni manca, Diu pruvìri” (di cui comprendiamo immediatamente il messaggio ed il significato di ogni singola parola), da un altro modo di dire, come quello di “Accamòra” (di cui invece, ci è magari chiaro il senso, ma non il significato specifico del termine).

Ed ancora, quando non riusciamo a compiere un lavoro impegnativo perché veniamo distratti da altre incombenze, lamentiamo con disappunto di avere “L’uòcci â manùra,… e i manu â custùra !”.

Anche in questo caso probabilmente, non tutti sapremmo spiegare il significato di manùra e custùra.

     In questo senso, con questa nostra piccola rubrica proveremo a ricercare e possibilmente ritrovare una probabile origine, un riferimento etimologico, un’analogia, con varie lingue che in tempi e modi diversi hanno influenzato la nostra “zona dialettale”.

Diciamo anche che per “nostra zona dialettale” intenderemo una parte di quella sud-orientale siciliana (così come i dialettologi la hanno identificata), e ci occuperemo più da vicino di quella che più dettagliatamente comprende la nostra città (Rosolini), nonché Pachino, Ispica, Pozzallo, Modica, Ragusa ed alcuni settori della sua provincia, per tornare fino a Noto, che sembra essere il limite orientale della zona cui ci riferiamo. In questi specifici ambiti, il modo di parlare è alquanto affine e, salvo qualche flessione espressiva o qualche singolo termine autoctono, possiamo considerarlo sostanzialmente omogeneo.

     Di pari passo con la Storia, i contatti più diretti -e che hanno lasciato i segni linguistici più significativi- sono stati nel tempo quelli con le culture dei popoli greci, latini, arabi, normanni, gallo-italici, francesi, spagnoli ed ancora per qualche neologismo dialettale, proprio dei nostri tempi.

 

     Ma ora entriamo subito in argomento, con un simpatico modo di dire:

- TĺPPITI e TÁPPITI… (o la sua forma estensiva ed onomatopeica di TIRITĺPPITI e TIRITÁPPITI…).

   Lo intercaliamo quando, con evidente derisione, ci riferiamo all’ atteggiamento pretestuoso di chi sembra voler tergiversare, allo scopo di prendere tempo. Si tratta insomma, del comportamento di chi vuole temporeggiare sulla necessità di fare o di agire. Per quanto riguarda l’etimologia, sembrerebbe trattarsi di una sopravvivenza greca che trova radice nel verbo τίπτω (tìptō). Da qui, quindi tìppitie e tàppiti. Il significato è quello di capovolgere, modificare, cambiare, tener lontano. Da una forma del suo tempo aoristo al ppf (tètrapta) potrebbe essere identificata la locuzione di tiritìppiti e tiritàppiti.

In ambedue i modi di dire, il termine viene ripetuto modificandone la dizione per propabile epentesi: dunque, tìppiti e tàppiti o, se preferiamo, tiritìppiti e tiritàppiti.

 

   Ed è un grecismo autentico la nostra interiezione:

- ARÁ !     Corrisponde all’italiano “dai” “suvvia” e la intercaliamo spesso per sollecitare qualcuno, pregandolo (o ammonendolo) di sbrigarsi, oppure per esprimere sorpresa o preoccupazione. La voce greca è appunto ‘αρά (arà), che in quel lontanissimo passato aveva significato di preghiera, di invocazione, di imprecazione.

 

 

 

 

   Ancora un’ultima locuzione veramente “antica” e che probabilmente comincia davvero a passare in disuso:

- PIGGHJÁRI ( o RICÍVIRI) MASTICÚNA…

Sono i piccoli o grandi tormenti che il vivere comune ci procura in alcuni momenti della nostra vita. E’ come se prendessimo un colpo di frusta, dalle persone o dalla sorte. Una condizione che ci prostra e che il più delle volte ci mette anche alla berlina, quasi a sottolineare una nostra vicenda negativa da offrire in pasto al tanto temuto uòcciu sociali…! Un tormento, appunto, come quello che greci chiamavano: un μαστιγόν (mastigòn), riferito al caso accusativo (e dunque del complemento oggetto), per definire appunto la “frusta” o il “flagello”.

Da concedere senz’altro è la pronuncia dialettale con la “c” (masticùni) anziché con la ”g” mastigùni), non foss’altro perché appare più vicino al verbo masticare.

Ma il cosiddetto vuccùni amaru sembra essere più esplicito del masticùni (anche nel sapore!), dando piuttosto l’immagine figurata di una bruciante colpo di sferza, che è il vero e proprio mastigùni.

 

 

- MILINCÚCCU

E’ la bacca del “bagolaro”, albero che prospera meglio negli terreni umidi. Nel periodo della maturazione, la bacca diventa di un color viola cupo ed ha un sapore dolciastro che allappa leggermente la lingua. A parte il gusto più o meno gredevole, era ricercato da noi ragazzi per il nocciolo duro che diventava un proiettile per le nostre cerbottane (zabbatàne). Dalla caratteristica fisica del frutto maturo proviene il nome di milincuccu. In greco la locuzione μελαγγόκκος (melancòccos) indica una “bacca di colore nerastro”.

 

 

- CUDDÚRA (e CUDDURÉDDA)

Anche questa è una sopravvivenza greca che identificava nella κολλύρα (collùra) l’impasto per il pane (solitamente circolare). Il diminutivo diventa la cuddurèdda, mentre il cuddurùni ne costituisce l’accrescitivo.

 

 

Anche le forme attuali del greco moderno (che comunque ha profonde ed evidentissime radici nel greco antico) ci forniscono una parola dall’etimo insospettabile:

- PARTUÁLLA

E’ una varietà di arancia detta anche “calabrese” piuttosto tardiva, relativamente nuova ed apprezzata, il cui nome sembra avere radici greche. Sarà forse una varietà tipica della frutta di cui trattasi, o (perché no?) un “prestito linguistico” risalente alla Campagna di Grecia della seconda guerra mondiale. Certo tutto questo può creare scetticismo, ma non sembra proprio una coincidenza il fatto è che greci di oggi chiamano πορτοκάλη (portocàlì) il frutto e πορτοκαλιά (portocalià) l’albero. Com’è noto, nel greco attuale la “η” finale di parola viene letta come una “ι” (e tanto vale anche per il gruppo ει, οι, υ).

Da portocalì a partualli il passo può essere stato brevissimo: è bastato adattarlo al nostro linguaggio.

 

 

 

Passiamo ora alla lingua latina, che nella nostra forma dialettale è abbondantemente presente.

E visto che ne abbiamo già dato cenno, citiamo subito il termine:

- ACCAMÓRA  

Non è altro che la locuzione latina hac mora (nel suo caso ablativo), ossia “in questo indugio (o ritardo) ”, ovvero “ in questo periodo (di tempo)”. In senso lato, noi ne facciamo uso nel riferirci alla circostanza presente, al momento in cui parliamo, nell’attuale contingenza.

 

 

 

Ed ancora:

- NUN CIRCARI NUÓLITI !!     È l’invito o l’ammonimento che si rivolge a chi cerca scuse, capricci e ragioni varie, per sviare dall’argomento. I nuòliti corrispondono letteralmente alle “cose non volute”, che non vengono accettate. Nell’analoga voce neutra latina, sono le “nolita”. Il verbo latino è nolo e vuole dire, appunto, “non volere”, “rifiutare”.

 

 

- ANTÚRA   Corrisponde al latino ante horam (come dire “prima di quest’ora”, che ci rimanda adun recentissimo tempo trascorso). Al riguardo, mi piace rammentare che fino a qualche decennio fa, abbiamo usato comunemente anche l’espressione “anturàzza”, intendendoci riferire a tempi piuttosto precedenti l’ultima ora trascorsa ed insomma un po’ meno recenti.

Curiosamente, il suffisso accrescitivo (non dispregiativo!) -azza sembrerebbe avere origine dal francese: precisamente dalla forma avverbiale “assez” (pronuncia: assè) e che corrisponde all’italiano “abbastanza”, “alquanto”. Altre forme del suffisso sono -azzu, -azzi, come appunto vedremo in altre occasioni.

Nel nostro caso dunque, “anturazza” si riferirebbe a “ben più di un’ora fa”…

 

 

E, giusto per rimanere nel “gallico idioma”, riprendiamo il modo di dire appena citato:

- L’UÓCCI A’ MANURA E I   MANU A’ CUSTURA.   E’ la condizione del sarto (il celebre mastru), al quale era riservato il lavoro più delicato nel confezionare un abito. La cucitura di alcune parti del vestito veniva eseguita a mano ed era una fase delicatissima che completava. Ma il sarto aveva anche i lavoranti (i picciuòtti), ossia la manodopera (anche generica), che, pronta a commettere pasticci per ingenuità o incapacità, andava sempre controllata con occhio vigile. In tal senso, la frase in argomento esprimeva l’angoscia del sarto. Questo modo di dire è stato poi esteso a chiunque stia facendo un lavoro che richiede attenzione e tuttavia debba anche badare ad altro.

Il riferimento alla lingua francese ripropone esattamente la posizione sopraddetta. Les yeux a la main-d’oeuvre e les mains a la couture. La “main-d’oeuvre” (manodopera) ha il corrispondente siciliano nella parola “manù-ura” e la “couture” (che è la cucitura) viene pronunciata “custùra”.

 

 

Restiamo ancora nel francese, per parlare di un altro modo di dire:

PIGGHJARI ‘A VIA RI LA CITU.

Questa espressione era sintesi di angoscia e di disperazione delle nostre mamme, che non riuscivano più a contenerci e a controllarci, in quanto nel nostro modo di vivere aveva preso una “cattiva piega”, una vita da sbandati, che ci rendeva ormai refrattari alle ramanzine, alle minacce, alle punizioni. Ebbene, la prima valutazione, quasi istintiva, che ognuno usa fare è quella di paragonare l’espressione alla “via” che il vino (buono) percorre prima di diventare “aceto”.

C’è però da chiedersi: ma quando poi eravamo diventati assolutamente irrecuperabili, le nostre mamme dissero forse che “ormai eravamo diventati aceto”? Qualcuno di noi, anche il più sbandato, il più vagabondo, è stato mai denominato “aceto”, anche in tono scherzoso o canzonatorio? No, sicuramente! Penso proprio che nessuno abbia mai messo a paragone l’aceto col carattere di un ragazzo vacabbùnnu o poco rispettoso delle regole, del buon comportamento…

Proviamo allora a rivisitare l’espressione, confrontandola con un’altra molto simile nel suono e nel significato, così come ce le potrebbe offrire la lingua francese. Paragoniamo quindi “la via di la citu”, con “la vie de la gîte” (che pronunciamo: la vii d la sgiit). In quest’ultima espressione la vie indica “la vita”(piuttosto che la strada) e la gîte (sostantivo femminile) indica, con evidente riferimento al linguaggio marinaresco, lo sbandamento della nave rispetto alla rotta che dovrebbe seguire. Insomma, quella che chiameremmo “la vita dello sbandato” , che richiama il nostro aggettivo “sbannùtu” (che però deriva dal verbo francese dèbander, con significato similare di sbandare).  

Il che non è poco, al fine dell’interpretazione della nostra frase. Né possiamo ignorare il significato dell’aggettivo francese “gitan” (= gitano, zingaresco), che richiama quel senso del “vagabondare” o “dell’agire da sbandato”, che aleggiava nell’espressione esasperata delle nostre mamme...

 

 

   Proviamo ora ad esaminare un’altra espressione stranissima (almeno all’apparenza):

 

- E’ TIEMPI RI FLICI - FLOCI ( o, se preferiamo, RI FILÍCI FILÓCI)

La frase viene usata per far riferimento a tempi abbondantemente trascorsi, in cui si viveva in ristrettezze generalizzate e soprattutto oppressi da rigore e costrizione. Tempi in cui bisognava rigare dritto, privi delle libertà di oggi, controllati dagli sbirri del regime, sempre pronti alla repressione più

spietata. Oggi si usa rammentare, rincuorare od ammonire (talvolta anche con aria di sufficienza), che non viviamo più in quei tempi… Cchi ti pari ca sièmu ‘e tempa di flici floci ? (oppure Finièrru cciù ‘i tempa ri flici - floci !)

   Con ogni probabilità, l’origine della frase è da far risalire ai tempi della dominazione francese in Sicilia, quando gli Angioini governarono fra spaventose angherie e repressioni dal 1270 al 1282 (quando i Vespri Siciliani ne segnarono la fine). E appunto in questo periodo le popolazioni erano controllate con rigore ed estrema protervia dalla soldataglia.

Nel linguaggio popolare dei francesi, lo sbirro viene anche oggi denominato flic, mentre la classica coppia di sgherri viene comunemente indicata col nome di flic e floc.

Ciò premesso, torniamo al linguaggio proprio dei siciliani, che non ammette parole tronche, per cui ogni qualsiasi parola finisce con una delle tre vocali a, i, oppure u (nessuna parola, infatti, finisce in o oppure in e). Quindi “sicilianizzando” flic e floc, parleremo di flici e floci. La necessità tipicamente popolare di attribuire un certo significato a questi due strani termini flici e floci, ha creato il riferimento ad un nome ed un cognome: un certo Felice Feloce, dialettizzato in Filici Filòci.

In tal modo, il dialetto è da ritenersi servito… e l’etimologia pure!

 

 

   Ma anche la dominazione araba ha lasciato i suoi segni nella nostra forma dialettale. Non si tratta di modi di dire o di importanti locuzioni. Tantissimi sono i toponimi: alcuni evidenti, altri di più complessa interpretazione (ma comunque ineccepibili). Molte sono le parole che pronunciamo con naturalezza, senza sapere forse che corrispondono ad altrettante parole arabe di suono e significato pressoché identico. Ne elenchiamo qualcuna, frutto di ricerca verso svariate fonti:

 

-Abbiamo quindi la ghjugghjulèna dall’arabo gulgulān (il sesamo), mentre la cosiddettacubbàita corrisponde alla qubbayt(a) ossia il torrone di sesamo.

 

- La quasat è il dolce (la nostra cassata), mentre il caciocavallo sembra derivare dall’arabo-turco qasqāwal.

- Curioso il caso del garofano (il nostro jaròfilu) che nella lingua araba è il qaranful, ma ha analogie ed assonanze col greco καρuόφιλλον (karuòfillon) e col latino caryophyllum (cariofìllum) , da cui anche l’italiano garofano.

- Continuiamo con la locuzione salamelècco. Con questo termine viene definito un saluto o un complimento eccessivamente ossequioso, quasi adulatorio ed è composto dall’espressione araba

as-salām-alayk (= sia pace su di te).

- Terminiamo stavolta con un simpatico termine che viene usato maggiormente nella zona del ragusano; è quello di scimèccu. Si usa con tono beffardo, per deridere una persona che si sta comportando da stupida. Insomma, un allocco. L’origine araba è ar sāmaqqa con cui viene definito un credulone.

 

 

 

   Non faremo mancare anche un richiamo ad etimi spagnoli, nei quali il nostro dialetto ha moltissimi riferimenti.

Parleremo stavoltadi simpatiche caratteristiche che usiamo attribuire a certe persone:

 

- STRAFALÁRIU

   Termine popolare che si attribuisce ad un individuo strambo, strampalato, bizzarro, su cui non bisogna fare molto affidamento. Corrisponde esattamente allo spagnolo estrafalàrio, dal significato e senso analogo. Le parole spagnole che transitano nel linguaggio siciliano, perdono la vocale e iniziale.

 

- NFRASCÁRISI (‘A TESTA) .

   Si usa dice di una persona che è assorta, immersa nei propri pensieri o fissazioni, oppure che si

lascia dominare da qualche passione. La locuzione è data dal frasco (in spagnolo indica il fiasco) e dà l’idea dell’imbottigliamento, in senso figurato, che fa cadere nell’oblio, in mestizia, nell’obnubilazione.

La persona che ha la testa ‘nfrascàta (o ‘nfraschiàta) è sempre distratta e non si accorge di quello che gli viene detto o che di quello che accade intorno a lui.

 

Il termine precedente si avvicina molto alla classica

- STRAVIATÚRA ossia il perdersi, il confondersi (quindi anche in senso psicologico). Siamo al verbo spagnolo extraviar, che nell’uso pronominale del verbo indica il disorientarsi ed anche il traviare, il commettere stranezze. Infatti, il l’extravìo sarebbe la pazzia, la condizione della persona extraviada (nella mente).

In senso estensivo, la nostra forma dialettale di straviàri si distingue dallo spagnolo e indica anche il disperdere, lo spargere oggetti, ma anche i propri pensieri…..

 

- TIGNUSU

   E’ la persona affetta da tigna (=funghi del cuoio capelluto, con caduta di capelli). Il noto proverbio di “lavari ‘a testa o‘ tignusu” indicherebbe un atto inutile, che non produce effetti, in quanto appunto il calvo non ha capelli da lavare, né la sola acqua serve a sanarlo.

Un significato figurato e peggiorativo è sinonimo di individuo gretto, spilorcio, insulso e meschino.

   L’origine della parola è nello spagnolo tiñoso ( la ñ viene viene pronunciata come una gn), di identico significato, anche figurato. La malattia è appunto la tiña (che pronunciamo tigna).

Con tono scherzoso indichiamo la tigna come si trattasse della testa. Ma è solo un termine popolare nostrano, che non ha riscontro nella lingua spagnola.

 

 

 

Per stavolta ci fermiamo qui e sperando di aver fatto cosa gradita al lettore ed anticipiando che nella prossima pubblicazione cercheremo di spiegare altri etimi di altrettanti modi di dire.

   Ci occuperemo di: “Macàri a Ddiu!”, dello “ghjòmmiru” e dello “ghjùmmu”, del “chi nnìcchi e nnàcchi ?”, dell’essere “pòviru ‘ncanna” e dell’espressione molto popolare di “cuòddu ri piu”, che non ha affatto significato od assonanza volgare. Infine di una strana parola che, partendo dalla lingua greca, è passata passa per quella latina, araba e spagnola, per finire nella nostra forma dialettale.

   Davvero sorprendente e per altro verso interessante.

         E accamòra …. salutàmu !

                                                                                        Faraone             

 

 

 

“CICCANNINA” 

 

Ore quattro. L’ora della sveglia.

   A malincuore, certo, ma bisognava alzarsi presto, per iniziare una giornata piena di lavoro e di fatica. E l’orologio della piazza era sempre puntuale e sempre esatto. Scandiva prima in sequenza i quattro tocchi delle ore e subito dopo cominciava ad alternare il tocco dell’ora e del quarto d’ora, in modulazione continua, per alcuni lunghi minuti. Era questa la “nostra” Ciccannina.

Neanche i galli, a quell’ora, avevano voglia di iniziare il solito coro. Anzi disturbati ad ogni tocco, sussultavano un po’ e, forse contrariati per l’improvvisa interruzione del sonno, lasciavano trascorrere ancora qualche minuto, come se volessero capirci qualcosa su questi improvvisi suoni, rumori, movimenti e volessero pigramente stiracchiarsi, prima di iniziare la loro tiritera di arditissimi chicchirichì, che si sarebbe prolungata fino a quando il sole illuminava le cose.

   I lavoratori più mattinieri, i contadini, si svegliavano subito e si alzavano in fretta (al contrario dei galli) per iniziare le varie attività che precedevano la partenza per i campi. C’era da tirar fuori dalla stalla il cavallo o il mulo (se non anche l’asino) e dargli subito da bere e da mangiare, per poi attaccarlo (rende meglio dire “mpaiarlo”?) al carretto. Questo importantissimo e “prezioso” animale era l’unico fido collaboratore, nelle tante ore della giornata di lavoro. Anche il cane scodinzolava per ricevere la sua parte di cibo, prima di piazzarsi al proprio posto, sotto il carro, abbaiando di tanto in tanto per aiutare il cavallo -si diceva- a tirare avanti e non sentirsi solo. Talvolta, al cane era anche consentito di montare “a cassetta”, e se ne stava orgogliosamente ritto in piedi alle spalle del padrone, resistendo intrepido alle sballottature del carro. Oppure si rannicchiava su un paio di sacchi di zammarra vuoti, che più avanti avrebbero accolto -in un improvvisato giaciglio- il suo padrone per un brevissimo riposo post-prandiale.

   C’era infine da caricare gli attrezzi che sarebbero serviti: zappa, pala, falce, il grande paracqua (validissimo sia d’estate che d’inverno), qualche frugale alimento, l’acqua, l’indispensabile carratieddu ben riempito di vino generoso…. e chissà cosa, ancora.

Un ultimo rassicurante sguardo all’interno della casa e alla famigliola (al focolare insomma), un saluto mormorato alla moglie (che intanto si era alzata anche lei per dargli una mano) e via verso il lavoro, di buona lena.

   Il contadino però non aveva ancora toccato cibo. Lo avrebbe fatto subito appena giunto a destinazione. Per la “prima colazione”, c’era una bella fettona di pane accompagnata da un’intera sarda salata; oppure -secondo stagione- un bel pomodoro: quello di una volta, rosso, “intenso”, profumatissimo e insaporito da un bel pizzico di sale. E per finire, il primo generoso sorso di vino dal carratieddu. Nulla di più. Ed ora, subito all’opera!

   L’orologio aveva appena scandito la Ciccannina… e già aveva già mosso tante attività.

D’altra parte, quanti possedevano all’epoca una sveglia a molla e con suoneria, se i primi di questi oggetti apparvero nelle nostre case solo verso gli anni quaranta ed oltre.?

   E la “Ciccannina” suonò ancora, sfidando e vincendo, in fatto di esattezza, le prime sveglie tintinnanti sui comò….

In epoca relativamente “più recente”, un’altra serie di rintocchi analoghi a quelli della Ciccannina suonava anche alle ore 8, per avviare i ragazzi a scuola e più tardi ancora a mezzogiorno, per quella che oggi si chiamerebbe “pausa-pranzo”. (Ma a quei tempi, altro che pausa! Ed altro che pranzo ! ).

Per noi bambini era un bel gioco quello di ciondolare la testa a destra e sinistra, come per scandire il tempo, ripetendo, sorridenti e divertiti. << ‘ndiiìu, - ‘ndaaàu - Manzuòrnu - sunàu >> E via così, di seguito, fino a quando -secondo noi- l’orologio, si stancava e… si zittiva.    

Che tenera innocenza!...

   Ma torniamo alla nostra Ciccannina vera, quella che faceva sbugghjàri alle famose “setti matinàti”. (Nientemeno, il celebre e fatalenumero sette pervadeva di arcano persino questi singolari ed umili momenti.)

Quando il contadino lavorava un campo a mezzadria, gli capitava talvolta -secondo necessità- di dover passare dal proprietario del fondo (il cosiddetto padrone) per portarlo con se in campagna. Questa circostanza viene evidenziata in un grazioso sonetto, gentilmente propostomi dal prof. Carmelo Nigro, scrittore ispicese, cultore degli usi e delle tradizioni della sua città.

   Ne riporto volentieri il testo, peraltro attribuito ad un autore del tutto ignoto che, in quanto tale, potrebbe anche essere un rosolinese… (?!)

Ovviamente, questa mia affarmazione, ammiccante e provocatoria, è un’indebita attribuzione “campanilistica”. In effetti, la contrada dei Viruri (corruzione di “Biduri”) di cui si parla nel componimento è in territorio di Ispica, lontano, verso Pachino…..

 

                                                   Sunava ‘a Ciccannina

Ognaggh’iuòrnu, a li quattru ri matina,

quannu lu sceccu ‘nta la stadda ‘rràgghja,                                  

a la ciazza sunava Ciccannina

ppi ddiri a lu viddanu: ”Va travàgghja!

Ampàja lu sceccu e mièttiti ‘nmmiàgghju,

lassa lu liettu ccu la cuttunina,

pìgghiti lu pani ccu lu cumpanàgghju

e mettatillu rintra ‘a la sacchina.

 

Allièstiti, se â-gghìri â siminari

l’uòriu e li favi versu a li Vururi

(sannò ti scura prima r’arrivari)….

 

Va’ tìrici li pieri a lu patruni,

arrisbìgghilu r’aùra e… ‘nti scurdari

a bùmmula ccu l’acqua e lu zappuni!”.

 

 

             Suonava la Ciccannina

Ogni mattina alle quattro

quando l’asino raglia nella stalla,

l’orologio della piazza suonava la Ciccannina

per svegliare il contadino e dirgli “Và a lavorare!

 

Attacca l’asino al carro e mettiti in viaggio;

lascia il letto caldo con la sua trapunta di lana,

prendi il pane col companatico

e mettilo nell’apposito sacchetto.

 

Dovrai sbrigarti, se devi andare a seminare

L’orzo o le fave nella campagna dei Biduri

(altrimenti arriverari quando farà sera…)

 

Fai alzare di buon mattino il padrone del tuo terreno.

E non dimenticare a casa

la bùmmula con l’acqua da bere e lo zappùni.

   Non tutte le piccole città del sud-est della Sicilia avevano la loro Ciccannina: si possono contare forse sulle dita di una sola mano. Assieme a Rosolini, comunque, anche Ispica racconta dell’analogo suono, nello stesso orario e con la medesima finalità.

   I rintocchi che annunciavano l’inizio della giornata, avevano origini e tradizioni antichissime e nei nostri paesi erano oggetto delle interpretazioni più fantasiose e peregrine, talvolta volutamente ammantate di mistero.... e di mistificazione.

Il termine stesso di “Ciccannina”, acquisito tra le parole più arcane del nostro passato, aveva ad esempio spiegazioni diverse in queste due cittadine che distano tra loro appena sei chilometri.

Ad Ispica si racconta (fonte: il predetto prof. Carmelo Nigro) la leggenda struggente di Cicca e Nina. Erano, queste, due sorelle orfane, cieche e poverissime, morte poi di freddo e di stenti, che avevano voci mirabili ed armoniose. Da loro presero nome le due campane dell’orologio cittadino.

A Rosolini si raccontava più semplicemente che La Ciccannina suonasse per svegliare Cicca e Nina; o per raccomandare di scaldare il latte e darne a tutti, ma “piccaa Nina !! Oppure anche, per svegliare quella “licca” o quella “sicca” che era Nina. (Ah, questa povera Nina!!.. ).

   Erano più o meno queste le spiegazioni estemporanee che le nostre mamme o le nonne si inventavano lì per lì, giusto per scaricarsi dell’imbarazzante e pressante curiosità di noi ragazzini. E tanto doveva bastare a soddisfarci, anche se ognuna di queste versioni, sempre più varie e sempre meno credibili, non riusciva a tacitare la nostra voglia di ragionevoli e soddisfacenti delucidazioni.      

   Eppure, per quanto ormai siamo abbastanza cresciutelli, dobbiamo confessare che la curiosità di prima ci è rimasta tutta quanta dentro ed ancor oggi è ferma lì, men che mai soddisfatta....

Allora proviamoci ancora a cercarcela da grandi, anche se i tentativi di una spiegazione etimologica portano a epoche e a soluzioni diverse. Dunque, le riporteremo così come ci sono apparse, lasciando a chi legge le riserve e le valutazioni ed anche -perché no?- i dissenzi.

   A me pare più immediato e anche più consono l’etimo greco. Si tratta del verbo κινέω (chinèo) e del suo infinito κινείν (chinèin). Il significato generico è quello di rimuovere, spostare, ma anche smuovere, scuotere (Liddle Scott -Dizionario- Le Monnier, Firenze). La fraseologia ci riporta al drammaturgo Euripide (480 – 406 A.C): κινείν εξ υπνού (chinèin ex upnù) ossia “scuotere dal sonno”( e quindi, appunto, svegliare). Se poi consideriamo anche che nell’antica lingua greca il tempo verbale del passato raddoppiava la sillaba iniziale, troveremo un κεκινείν (chechinèin), che ci porta, nella forma passiva, al significato di “essere stato svegliato” (dal sonno, nel nostro caso). Il passo tra chechinèin e ciccannina può essere breve, data la palese l’affinità fonetica dei due termini, oltre che del significato.

Per quanto attiene la pronuncia, rammentiamo che della nostra forma dialettale il gruppo ch viene acquisito col suono della consonante “cdura. Basta mensionare l’esempio di chiave / chiodo = ciavi / ciuòvu oppure chiamare / chiaro = ciamari / ciàru.

   Anche se tutta da provare e da interpretare (ma mi faccio comunque obbligo di esporla), un’ulteriore spiegazione viene proposta dall’apporto linguistico che, per parte sua, la dominazione francese ha lasciato in Sicilia, influenzando in modo particolare il linguaggio della cosiddetta “zona dialettale del sud-est siciliano”.

Secondo questo riscontro, il termine potrebbe essere accostato alla parola chicane (scican), il cui diminutivo farebbe, quindi, chicanine (scicanin). Ed appunto la chicane indica una variante, anzi più precisamente una improvvisa modifica che viene a fermare ed interrompere una continuità (nel caso nostro, quella del sonno). Tale è infatti, ad esempio, la caratteristica “chicane“ del circuito moto-automobilistico sportivo.

     Con il dovuto riferimento alle diverse epoche, la Ciccannina potrebbe dunque richiamare il senso del venire svegliati, o indicare più genericamente la variazione notte/giorno.

 

   In effetti, la lunga notte era iniziata la sera precedente appena inoltrata, quando la stanchezza per le molte fatiche della giornata imponeva un riposo quanto più lungo possibile. Ed ora c’era appena il tempo di vestirsi, di accudire -come abbiamo già detto- il cavallo e il cane e via, nel viaggio antelucano, sempre silenzioso e pieno di pensieri, di dubbi, di progetti. Ricordiamo bene, infatti, come per raggiungere i campi bisognasse percorrere lunghe tratte che richiedevano anche qualche ora di cammino, alla velocità di un quadrupede, lento, cadenzato, paziente.

Questo crudo scenario (che per altro verso si potrebbe anche accostare a ben più poetiche “immagini pariniane”), appartiene ormai al passato più profondo. Oggi la Ciccannina non suona più e ci si sveglia ben oltre l’alba, magari non abbastanza riposati, per aver fatto le ”ore piccole”.

Subito dopo, si fa una ricca colazione con caffè a volontà (per tutti: anche per quella famosa quanto sconosciuta Nina dei nostri ricordi rosolinesi ! ).

   Abbiamo automobili veloci, autobus, treni rapidissimi (?!) e ciononostante riusciamo -complice il traffico e certe lunghe code- ad arrivare in ritardo al lavoro!   Colpa delle comodità?   Del traffico?   Delle radiosveglie? Dell’indolenza ?. O piuttosto una prima colazione troppo ricca e difficile da digerire ?? Chissà…

Certamente qualche volta, alla luce di certi fatti, avremmo preferito essere svegliati, dal suono di un’ intransigente, imparziale e soprattutto “puntuale” Ciccannina. O no?! 

 

                                                           Federico Faraone

 

 

 

Corriere Elorino n.14 del 16/30 settembre 2001 (5^ pagina)